Introduzione e metodologia
Quando si procede ad un’analisi politologica di un fenomeno come il populismo, è probabilmente inevitabile una certa partigianeria come conseguenza del tema stesso dell’indagine. Passando in rassegna la letteratura scientifica, infatti, è facile accorgersi di come diversi autori trattino il tema partendo da un assunto morale o addirittura da un linguaggio più giornalistico che accademico. La seguente analisi prova a prendere le distanze da questa impostazione e ad inquadrare il fenomeno partendo dalla definizione che ne viene data dalla letteratura, per capire se e in che misura quest’ultimo sia attinente ad una categoria politologica concreta. Questa indagine sarà accompagnata da alcuni riferimenti storico-letterari. Successivamente l’analisi si soffermerà sul rapporto tra populismo e democrazia, riprendendo i contorni di un confronto ancora in corso e che vede due correnti di pensiero divergenti. Da ultimo, l’articolo evidenzierà il rapporto tra il fenomeno descritto (e quello percepito) e la particolare accountability democratica dell’Unione Europea, per la quale il populismo rappresenta una sfida strutturale. Il percorso euristico evidenziato porta con sé molti vantaggi. Il più chiaro ed evidente è di inquadrare il fenomeno come percezione prima che come azione, disgiungendo alcune concatenazioni logiche solo apparenti. Oltre a questo, il metodo di analisi graduale aiuterà a discostarsi da definizioni preconcette, tenendo sempre sullo sfondo la profondità della dimensione storico-politica a cui si fa riferimento.
Populismo - definizione di un fenomeno complesso
A differenza di altri temi propri delle scienze politologiche, l’analisi del fenomeno del populismo è di assoluta attualità politica. Le recenti pubblicazioni sul tema non fanno che evidenziare questa connessione, partendo spesso da una constatazione di imminente pericolo. Nella sua ottima ricerca sul fenomeno del populismo in Francia e sulle sue origini nella Repubblica di Vichy,per esempio, Suzanne Berger si chiede retoricamente come si possa difendere la democrazia di oggi dai partiti, come il Fronte Nazionale, che attentano alle istituzioni e provano a stravolgere a loro favore ogni dialettica di confronto (Berger, 2017, p. 29). Il sociologo digitale Ralph Schroeder dal canto suo prova a dare un senso alla stessa sfida mettendo il recente populismo in relazione con i social media e analizzando quattro casi di mala politica: l’India del Presidente Narendra Modi, i democratici svedesi, gli Stati Uniti di Donald Trump e una non meglio specificata corrente di destra del Partito Popolare Cinese. Secondo lo studioso, i tre casi analizzati sono accomunati da un ricorso sistematico a meccanismi di camuffamento digitale e ad una deriva informativa che sfugge al fact checking dei media tradizionali. In questo senso il populismo viene classificato indubbiamente come fenomeno degenerativo e tendenzialmente di destra (Schroeder, 2018, p. 61). Il giudizio morale connaturato al concetto è del resto ben radicato nella storia occidentale. Pur non esistendo ancora un concetto esatto associabile al termine, già Plutarco riporta alcuni tratti che oggi definiremmo populisti dello statista ateniese Pericle. Secondo lo storico romano, alcune riforme fatte per ingraziarsi il popolo furono frutto di false informazioni e abilità retorica, e tese ad accentrare su di sé la democrazia ateniese.
Le caratteristiche della politica di Pericle sono le stesse che gran parte della letteratura scientifica sul tema definisce come tipiche del populismo: la diffidenza verso lo straniero e il restringimento della cittadinanza, la contrapposizione ad un’élite sentita come chiusa e privilegiata, la mobilitazione contro un nemico esterno per allentare le tensioni sociali e perfino l’autorappresentazione di sé come unico politico virtuoso (Plutarco, 1987). Poco sorprendentemente, anche la figura di Catilina, una delle più spregevoli della storia romana antica, viene catalogata da Gaio Sallustio Crispo nello stesso modo; Catilina, incarnazione del cattivo politico, avrebbe aizzato il popolo contro l’élite, promettendo prebende a chi lo avesse seguito e diffondendo calunnie sui costumi corrotti del Senato. Lo stesso tòpos ovviamente continua attraverso i secoli pressoché immutato, accumunando il frate fiorentino Savonarola al rivoluzionario Juan López de Padilla nel Rinascimento.
Le similitudini tra il populismo contemporaneo e quella che era nota nell’antichità come “cattiva politica” o “demagogia” hanno spinto lo studioso americano Craig Calhoun a delineare una vera e propria storia del populismo, tesa a dimostrare come questo termine in realtà serva ad accumunare esperienze di portata storica così vasta da non poter essere accompagnate a specifici giudizi morali. Interessante a questo riguardo può essere il caso del Presidente Andrew Jackson, uno dei più grandi riformatori democratici della storia americana, ma al contempo un candidato sciovinista, responsabile dell’assassinio di diversi nativi americani e ricordato per aver condotto una campagna elettorale contro “i poteri forti” di Washington e per l’“uomo comune” esattamente come fatto da Trump. Senza Jackson gli Stati Uniti probabilmente sarebbero transitati molto più tardi al suffragio universale maschile (Vormann & Weinman, 2020). La sua statua oggi si erge davanti alla Casa Bianca ed è a centro di una protesta incentrata sulla sua controversa figura.
Per venire a tempi più contemporanei, non si può evitare di citare Juan Domingo Peròn, dittatore argentino dal 1945 al 1955 e fautore di una politica interna improntata al socialismo di stato e all’uguaglianza sociale. A fronte della sua controversa figura, sono stati tentati diversi giudizi storici sul suo operato, ma quel che è certo è che ancora oggi in Argentina alcuni dei principali partiti di governo di ispirano alle sue scelte politiche in materia di esteri e politica economica, citando esplicitamente la sua figura di statista (Ocampo, 2020). L’eterogeneità delle esperienze storiche associate al populismo ha inevitabilmente spinto la letteratura a discostarsi da una lettura univoca del fenomeno. Jacques Rupnik, per esempio, riconosce la difficoltà ad inquadrare scientificamente il fenomeno, ma si dice sicuro della sua genesi ed evoluzione illiberale. Rupnik, non prendendo in considerazione l’idea storica di populismo, invero come la maggior parte degli autori che si sono spesi sul tema, si sofferma più su esempi contemporanei che sull’idea tradizionale occidentale di demagogia (Rupnik, 2007).
Egli soprattutto fallisce nel cogliere i molti esempi in cui delle figure accusate di populismo in realtà si battevano per la giustizia sociale o per estendere il diritto di voto. Quest’ultima considerazione porta su un terreno spinoso, ossia la definizione di populismo come sinonimo di forza che si batte, non sempre con sistemi leciti e trasparenza, per il cambiamento sociale. In una pubblicazione di grande spessore e provocazione, la giovane studiosa Rebecca Dudley ha paragonato i discorsi populisti di un classico case study accademico sul tema, il dittatore venezuelano Chavez, e quelli dei politici più in vista negli anni della Rivoluzione Francese. Il risultato è che in pochi anni nella sola Parigi vennero pronunciati più discorsi di carattere populista tra il 1789 e il 1799 di quanti ne abbia fatti Chavez nel corso della sua carriera politica. A fronte di ciò, dall’analisi risulta che i rivoluzionari francesi vengono definiti “populisti” solo una volta, a fronte di 126 citazioni accademiche per i discorsi dell’ex presidente venezuelano (Dudley, 2016). Ovviamente, ammettere che la rivoluzione francese sia stato un fenomeno intrinsecamente populista, comprendendo con ciò anche il ricorso a reali o immaginari nemici interni ed esterni, getterebbe ombre sull’intera storia della democrazia europea, mostrando una connessione tra politici di estrema destra e sinistra e pensatori che noi definiamo i padri della democrazia moderna.
Ernesto Laclau, forse il più celebre filosofo politico che si è occupato del tema, scrisse prima della sua morte “On populist reason”, con il tempo diventato un classico per la definizione e comprensione del fenomeno. Connettendosi a coevi studi di psicologia sociale, Laclau concluse che la creazione di una comunità popolare contrapposta ad un “altro”, spesso su origine mitiche o rimanendo su una supposta superiorità morale, è uno dei fenomeni tipici per la costruzione della società nazionale moderna. I giacobini francesi, la Turchia di Ataturk e gli Stati Uniti sono proprio Stati nazione nati sulla scorta di un processo “populista”, spesso illusorio ed esclusivo contrapposto ad una élite morale corrotta. Gli studi di Laclau, fieramente criticati, hanno aperto un filone di pensiero che problematizza non solo la definizione morale del fenomeno - e associabile a quello dell’antica demagogia - ma ne mette in dubbio addirittura l’esistenza empirica (Laclau, 2007).
Un tentativo di recuperare una definizione coerente di populismo, unitamente ad una definizione antiliberale e tendenzialmente totalitaria del concetto, è stato compiuto negli ultimi anni da Jan-Werner Müller, storico delle idee politico e docente all’università di Princeton. Müller nel suo testo di riferimento sul tema “What Is Populism?” tenta di sfaccettare la complessità del fenomeno, riconoscendo come i partiti populisti non si possano raggruppare tanto per delle caratteristiche intrinseche dialettiche o organizzative, ma piuttosto per un’ambizione alla rappresentatività totale e quindi ad un rigetto del dissenso interno ed esterno (Müller, 2016). Sempre secondo lo studioso, il punto di partenza del populismo è innanzitutto morale e parte da una distinzione tra i lavoratori e le classi produttive per la società e le categorie che vivono alle sue spalle. Queste ultime sono per lo più rappresentate da ambienti vicini alla politica e alla finanza, con un accento posto a destra anche su immigrati ed emarginati, usati come manovalanza dai “poteri forti”.
Tuttavia, a differenza dei movimenti di protesta (tendenzialmente di sinistra) come gli indignados o occupy wall street che apparentemente seguono le stesse linee di faglia ma, secondo lo studioso, non sono veramente demagogici, i partiti politici populisti non pretendono di rappresentare solo una parte del corpus socialis (ad esempio i risparmiatori truffati) ma tutta la nazione, negando dignità e voce a chi mette in discussione questa dicotomia tra lavoratori e sfruttatori (Müller, 2014). Müller chiama questo tipo di narrativa “moralistic imagination of politics”, prendendo ad esempio il Movimento Cinque Stelle in Italia, ma anche Podemos in Spagna e l’Ukip nel Regno Unito. Le conseguenze di questo modo di fare politica sarebbero duplici: da una parte questi partiti mobilitano le masse negando legittimità ai loro avversari, dall’altra espellono le voci dissidenti al loro interno e tendono ad essere diretti in modo autoritario (Müller, 2014).
Il dibattito su cosa sia o meno populismo è ancora in corso nella comunità accademica, ma quel che tutti gli autori notano è che esso favorisce un senso di forte identificazione con la comunità nazionale e si mostra scettico verso tutti coloro che all’interno o all’esterno sembrano minacciarne l’integrità. Per questo motivo la politica populista si mostrerebbe insofferente verso le istituzioni internazionali, come ben dimostrato dalla presidenza Trump, e in Europa particolarmente ostile al processo di integrazione europeo. I discorsi contrari ad ogni forma di controllo sulla libertà (e quindi sovranità) nazionale negli Stati Uniti sarebbero per lo più emotivi e senza fondamento, inventati ad arte da Donald Trump per mobilitare i cittadini scontenti della politica economica e commerciale di Obama (Skonieczny, 2018). Per quanto riguarda l’Unione Europea la stessa narrativa immaginaria mirerebbe a mobilitare i cittadini contro le istituzioni di Bruxelles, viste come vicine alla finanza e ad interessi opachi, creando una falsa coscienza che porterebbe la democrazia verso esiti nefasti. La scelta della Brexit, e quindi l’uscita del Regno Unito dal progetto unico europeo, è portata come esempio principe (Martin & Smith, 2014).
Il concetto viene sviluppato meglio, ancora una volta, da Jan Werner Müller. Secondo lo studioso il forte scetticismo mostrato in Europa dai movimenti populisti verso le istituzioni comuni nasce in realtà non solo e non tanto da una narrativa fuorviante, ma soprattutto da un’effettiva limitazione alla sovranità nazionale che sta alle radici stesse del processo di integrazione continentale. L’accusa fatta dai partiti populisti ai regolamenti e alle leggi europee e gravitante intorno alla natura limitativa dei trattati rispetto alla sovranità nazionale sarebbe fondata e mirata proprio ad arginare il potere degli stessi che muovono queste critiche (Müller, 2014).
L’Unione Europea sarebbe quindi, come sottolineato anche da altri autori, una specie di tribunale democratico di ultima istanza, ossia un tentativo tecnico/politico retto da trattati internazionali per evitare ogni deriva populista (e quindi autoritaria) potenzialmente proveniente dal basso. In questo senso il processo di integrazione europea, consolidato nelle istituzioni comuni dell’UE ma anche regolato da organismi internazionali vincolanti come il Consiglio d’Europa1, sarebbe proprio una clausola di salvaguardia avallata dai Parlamenti degli Stati Membri contro gli eccessi della democrazia diretta (Kelemen, 2013). Questa considerazione porta a guardare il fenomeno del populismo in Europa naturalmente da tutt’altra prospettiva: se infatti il populismo sorge per liberare la comunità nazionale da ogni tipo di controllo nato per prevenire un ritorno dell’autoritarismo, non si può dedurre che gli stessi partiti populisti contengano in sé il germe dello stesso male? Questa domanda riporta alla lettura del populismo come fenomeno non semplicemente politologico, ma in prima istanza morale, se non addirittura etico secondo l’idea spinoziana di utilità sociale.
Le due forze della democrazia contemporanea
Come è noto, la democrazia rappresentativa attuale non ha molto in comune con le prime forme di governo omonime localizzate nella Grecia del periodo così detto “classico”. Dal punto di vista teorico, la democrazia elettiva a suffragio universale è ovviamente frutto più del pensiero rivoluzionario francese che della classificazione di πολιτεία aristotelica. Dal punto di vista della sua attuazione e quindi della sua storicizzazione, a prevalere è stato invece lo spirito liberale, e quindi inevitabilmente anche la diffidenza verso gli eccessi della democrazia che si possono trovare in nuce già in Tocqueville e patenti in autori del secolo scorso come Ortega y Gasset. La diffidenza liberale per le masse, concretizzatasi del resto con i totalitarismi del secolo scorso, ha spinto ad una progressiva “normativizzazione” di questa forma di governo, e quindi ad un sempre più forte divario tra i sostenitori di un modello fluido di leadership con un forte legame con la base sociale (e gli umori sociali) e costoro che si ergono a guardiani delle istituzioni nate in occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi.2 I primi sostengono di voler riportare la democrazia al suo senso originario, ossia al significato di governo in cui il corpo sociale/politico è padrone del suo presente e futuro, mentre i secondi contestualizzano il senso dell’esercizio di responsabilità individuale e collettiva, estendendone la portata fino ad abbracciare tutti gli individui (e quindi la comunità internazionale) e persino le future generazioni (e quindi politiche eterodirette atte a tutelarle, per esempio sull’ambiente) (SOMMA, 2018). L’Unione Europea rientrerebbe appieno in questa democrazia evoluta, transnazionale e poggiante su una predominanza del diritto, soprattutto nella tutela delle libertà individuali (Erne, 2008).
Il dibattito tra le due linee di pensiero oggi è di assoluta attualità, soprattutto dopo il lancio della conferenza sul futuro dell’Europa e l’auspicato coinvolgimento dei cittadini europei per una possibile revisione dei Trattati. Proprio a causa dell’importanza del momento storico e della necessità di garantire un salubre confronto nella sfera pubblica è importante provare a chiarire meglio come la categoria del “populismo” si attagli oggi alla politica nazionale ed europea e quanto questo fenomeno debba essere tollerato in una società democratica. La prima considerazione, nel metodo e prettamente accademica, è su quanto sia difficile creare una categoria unica ed universale che abbia in sé tutte le caratteristiche che di volta in volta vengono identificate come populiste.
Pressoché tutti gli autori tra quelli citati, tra cui Müller, Skonieczny e Vormann (Erne, 2008) riconoscono questa difficoltà, facendo esempi di partiti populisti che rientrano nella definizione da essi creata ed altri che non vi corrispondono perfettamente. L’errore metodologico, in questo caso, consiste nell’invertire l’ordine scientifico della prova, dando per scontato che alcuni partiti rientrino nella categoria ricercata quasi per un senso comune e non per delle caratteristiche intrinseche da essi possedute. Alcune realtà politiche, come il Fronte Nazionale in Francia e il Movimento cinque Stelle in Italia, o alcuni leader, in primis Donald Trump, non sono definiti come populisti a seguito di un’indagine, ma vengono analizzati già in quanto populisti, alla ricerca di alcune caratteristiche comuni. Questa poca accuratezza scientifica porta a definire il fenomeno per i suoi attori contingenti e non il contrario. In altre parole, manca quel coraggio accademico posseduto da Hanna Arendt, la quale si attirò gli strali della comunità scientifica per aver disegnato una definizione di totalitarismo con una coerenza intrinseca, ma che escludeva il partito fascista italiano (Arendt, 2003).
L’assunto stesso dell’analisi di chi si occupa dell’argomento è quindi di solito viziato da una scarsa oggettivizzazione che porta a mischiare le caratteristiche di un fenomeno politologico con il tòpos classico della cattiva politica, quasi a ricercare le ragioni irrazionali di un successo immeritato. Le cause della vittoria di alcuni partiti sono solitamente individuate in un abbassamento della cultura generale e in una tendenza autoritaria quasi antropologica che inevitabilmente porta la democrazia verso l’autoritarismo e quindi verso leader pericolosi (Kivisto, 2017). Il problema di quest’analisi è che essa è viziata nelle sue premesse e quindi non aiuta a comprendere se effettivamente esista il fenomeno politologico di cui si parla oppure se si stia andando alla ricerca di un’arma di delegittimazione verso alcuni schieramenti. In effetti, se si invertisse l’onere della prova e quindi si leggesse attraverso le lenti del populismo l’intero spettro politico si potrebbe concludere che alcuni alfieri dell’ordine liberale, come il Presidente francese Emmanuel Macron, sono stati tra i maggiori populisti in campagna elettorale (Hanken & Barthold, 2020, pp. 419-430).
L’ovvia conclusione sembra essere quella di Laclau, il quale sostiene che in realtà gran parte della dialettica bollata dagli autori come “populista” è legata ad uno spirito potenzialmente rivoluzionario dei partiti identificati come tali e quindi naturalmente contrapposti all’egemonia culturale del momento. La lettura gramsciana in questione sfida quindi l’ordine morale presupposto dalla maggior parte della letteratura, presentando in effetti ciò che viene definito come “populismo” come un fenomeno trasversale e legato al dissenso intrinseco ad ogni forma di governo e alle sue possibilità di mutazione e cambiamento (Arditi, 2010, pp. 488-497). La così detta militant democracy, già avversata da Müller perché poco utile al dibattito accademico, rischia quindi di essere semplicemente ridondante da un punto di vista scientifico, conservatrice da un punto di vista politico e fuorviante rispetto all’identificazione del fenomeno (Müller, 2014). La lettura di ciò che viene definito populismo come fenomeno di dissenso e quindi tipico della sfera pubblica democratica pone tuttavia una duplice domanda. La prima è se in effetti conservare lo status quo attuale sia auspicabile di per sé, e quindi se in effetti si sia oggi vicini in Occidente ad uno dei “migliore mondi possibili” che debba essere difeso anche a prezzo di una minore flessibilità di dirigenza e contenuti. La seconda, strettamente correlata alla prima, è se ciò che viene percepito come populismo abbia delle caratteristiche intrinseche che lo spingono vicino al sovranismo e quindi ad uno scetticismo verso ogni tipo di mutamente nel milieu sociale che non passi per un confronto democratico diretto della comunità nazionale (o percepita come tale).
Se entrambe le questioni sono ovviamente di difficile soluzione, soprattutto la seconda che deve scontare una certa indeterminatezza (a seconda di ciò che nell’immaginario collettivo o accademico si fa rientrare arbitrariamente nella categoria). Proprio per questo motivo, è chiaro che il nesso tra populismo e libertà di espressione dipende in definitiva da una scelta politica e culturale che è necessariamente opinabile e soggettiva. Da un punto di vista strutturale, si deve tuttavia considerare come ogni istituzione tenda alla propria preservazione e all’accrescimento del proprio potere, e questo valga sia per le organizzazioni internazionali esistenti che difendono la propria autorità (Nazioni Unite, Unione Europea, Corte Europea dei diritti dell’uomo, Organizzazione mondiale del commercio), sia per gli Stati che le hanno create e poggiano su una storia e cultura costituzionale solitamente più antica (Von Mises, 2000).
La democrazia “diffusa” verticalmente e orizzontalmente di oggi sta indubbiamente mettendo in discussione la sua capacità di cambiamento, temendo derive autoritarie come avvenuto prima in Russia e poi nell’Europa centro-orientale negli ultimi anni (Oliker, 2017). Questa reazione potrebbe dipendere da una semplice scelta conservativa/egemonica oppure da un’autentica risposta democratica rispetto a una minaccia (le due cose del resto non si escludono). Da qui la seconda questione, ossia se ciò che viene percepito come populismo, sia di destra che di sinistra, si possa assimilare tout court al sovranismo. Se la risposta fosse affermativa, sarebbe facile intravedere un contrasto tra una difesa della sovranità nazionale da una parte e la predominanza della democrazia normativa internazionale dall’altra.
In questo caso si dovrebbe però ridimensionare il populismo come fenomeno rivoluzionario e sottolinearne il carattere in realtà conservativo, ammettendo che esso è il normale contraltare della cessione di sovranità democratica verso le istituzioni internazionali. Non a caso questa interpretazione è la favorita da chi accusa il populismo di essere una manifestazione reazionaria contro un nuovo equilibrio raggiunto in Occidente e soprattutto in Europa (Schiemann, 2007). Se la risposta fosse negativa, invece, si dovrebbe propendere per l’interpretazione di Laclau e connaturare il populismo al dibattito democratico, ammettendo che possa esistere anche un populismo internazionalista o di altra natura3. In entrambi i casi sarebbe impossibile negare legittimità politica al fenomeno, visto che esso sarebbe nel primo caso espressione di una tensione intrinseca tra due livelli democratici e, nel secondo, abbrivio per un’autentica riforma costituente.
Unione Europea e populismo
L’identificazione del populismo con il sovranismo (inteso non semplicemente come discorso contro le élite, ma come difesa della sovranità nazionale) è ampliamente riscontrabile nella letteratura, soprattutto europea, sul tema. Nei dibattiti sull’Unione Europea, l’identificazione di un partito come populista passa sovente proprio dalla contrapposizione tra la difesa dell’interesse nazionale e i progetti di integrazione europea, per poi scemare appena gli stessi partiti/movimenti bollati come euroscettici rientrano nell’alveo di un europeismo costruttivo. Questo è il caso di Syriza, partito preso come esemplare di populismo sovranista subito dopo le elezioni del 2012 in Grecia (Stavrakakis & Katsambekis, 2014) e divenuto in pochi anni esempio di politica inclusiva e anti-sovranista (Markou, 2017). La stessa identica parabola è ravvisabile nell’italiano Movimento cinque stelle e nello spagnolo Podemos, passati da essere considerati movimenti populisti e sovranisti prima delle elezioni italiane e spagnole (Vittori, 2017) - per quanto “atipici” (Franzosi & Marrone, 2015) - a esponenti di un nuovo populismo inclusivo, dialogante ed interessato ad una maggiore giustizia sociale (Font, Graziano, & Tsakatika, 2019).
Questa transizione, avvenuta in tempi relativamente brevi, non è mai dovuta ad un cambiamento di constituency dei partiti in questione, né a sostanziali mutamenti nei programmi elettorali, ma soprattutto ad un differente linguaggio sull’Europa delle forze note come populiste dopo l’inizio dell’esperienza di governo4. D’altro canto, seguendo la stessa ratio, appare difficile per la letteratura rivalutare quei partiti intrinsecamente euroscettici, come la Ukip britannica o il Fronte Nazionale francese, che per storia e tradizione si sono sempre posti come freno nei confronti di una maggiore integrazione europea (Tournier-Sol, 2021). Le diverse gradazioni possibili di populismo ed euroscetticismo attraverso il tempo rafforzano le tesi di chi ha creduto di poter ravvisare l’esistenza di una scala complessa di posizioni sull’Europa che impedisce di cristallizzare un partito come “sovranista” o “euroscettico”.
Queste diverse gradazioni servono però per lo più ad indicare la possibilità di cambiamento della manifestazione e non a mettere in discussione che questa correlazione esista (Helbling, Hoeglinger, & Wuest, 2010). Il legame che intercorre tra sovranismo e populismo nella letteratura è così solido nel dibattito e intessuto di esempi concreti che si può quasi pensare che l’euroscetticismo in Europa ne sia la principale manifestazione, più di qualsiasi altra caratteristica intrinseca. Ma se ciò è vero, si torna a quanto si diceva prima sul confronto tra due sfere democratiche disallineate: una normativa, internazionale e percepita come rigida incarnata dall’Unione Europea e una emotiva, nazionale, e percepita come massimamente flessibile. Ovviamente nessuna delle due sfere è realmente come viene presentata. Da una parte, infatti, le nazioni sono da ultimo responsabili delle politiche attuate a livello internazionale ed europeo, dall’altra le democrazie nazionali, soprattutto in Europa, sono ben più rigide e rispondenti ad un principio normativo di quanto si possa pensare. In effetti, è facile per esempio ricordarsi della recente deriva semi-autoritaria ungherese, ignorando la complessità della transizione democratica in quel Paese, ma apparentemente difficile rammentarsi della duttilità con la quale le democrazie dell’Europa occidentale hanno reagito nei lunghi anni della guerra fredda.
È semplice da questa premessa capire perché, ancora una volta, siano proprio i pensatori più vicini a Laclau a mettere in guardia contro una sovrapposizione semplicistica dei due temi (De Cleen & Stavrakakis, 2017), mentre il filone degli studi democratici insista su una loro congiuntura alla sorgente o alla foce (Brubaker, 2019). La scuola di Laclau prova a fornire una soluzione alternativa al “moral compass” prevalente negli studi, collegando il populismo ad una richiesta, talvolta radicale, di cambiamento sociale (Mouffe, 2007). Questa risposta tuttavia rischia di dirci qualcosa su una categoria politologica in realtà diversa da quella che si va delineando nell’immaginario comune (compreso quello giornalistico) e accademico, in cui il populismo non è un fenomeno autonomo, ma risulta indissolubilmente legato ad alcuni singoli partiti e programmi politici. In Europa questi partiti sono tradizionalmente di estrema destra o sinistra, mentre i programmi hanno in comune una diffidenza per le istituzioni sovranazionali e l’Unione Europea in particolare.
Per capire il fenomeno populista nella sua percezione comune, per lo meno in Europa, si deve indagare un poco più a fondo proprio su come la politica nazionale ed europea sono state rappresentate negli ultimi trent’anni di integrazione e sul perché si sia diffusa la convinzione che la democrazia nazionale sia al contempo fragile e flessibile, mentre il liberalismo incarnato dall’UE sembri resistente e rigido. Indubbiamente, parte della soluzione sta in considerazioni valoriali aprioristiche e dal retrogusto morale che portano ad identificare il populismo (demagogico) o come una reazione conservatrice rispetto ad un auspicato progresso democratico transnazionale o come movimento rivoluzionario nei confronti delle istituzioni democratiche consolidate. In entrambi i casi è possibile notare un intrinseco pericolo rappresentato da tutte le realtà che vengono accostante al tòpos e quindi il facile ponte verso l’autoritarismo già visto.
Oltre a questa lettura accademica militante, parte della comprensione del fenomeno passa anche da una reale preoccupazione per due tipi di legittimità politica diverse e palesemente difficilmente amalgamabili. La democrazia nazionale europea, di fatto l’unica che passa gli esecutivi costantemente al vaglio elettorale, è una forma di governo compiuta e regolata dal diritto e perciò pienamente legittima. La democrazia ottriata europea, al contrario, è solo indirettamente posta al vaglio del giudizio popolare e soffre di un deficit informativo immenso tra il suo unico organo di rappresentanza, il Parlamento Europeo, e gli elettori nazionali. I benefici di una democrazia tecnocratica fatta dai “migliori” e regolata da un liberalismo razionale sono molteplici, come sottolineato da diversi autori (Somek, 2010).
Tuttavia, la mancanza di accountability democratica è pericolosa sia perché toglie legittimità e autorevolezza a questa forma di governo, sia perché espone ad un classico esempio di azzardo morale su chi siano i migliori e quali interessi perseguano (Habermas, 2015, pp. 29-46). Ancora più oscura appare del resto la scelta di affidare questa responsabilità democratica di secondo livello a delle istituzioni il cui carattere è limitato all’Europa geografica (Unione Europea e Consiglio d’Europa) e che hanno un carattere culturalmente determinato.5 In realtà, se la democrazia nazionale avesse realmente bisogno di trovare una propria complementarità al suo esterno, l’ideale sarebbe immaginare delle istituzioni realmente globali, che possano tutelare tutti i popoli che scelgono di identificarsi in questa forma di governo. Alternativamente, si potrebbero anche trovare delle forme di controllo democratico già culturalmente solide, come tra Europa ed America, che avrebbero il vantaggio di effettuare una valutazione oggettiva sulla situazione politica o creare un nuovo acquis che abbia una reale ambizione di universalità. La volontà politica di tenere distinti i due processi è però finora mancata. La motivazione, apparentemente semplice, ma che sta all’origine della sovrapposizione tra populismo e sovranismo in Europa, è nell’ambiguità che ha visto finora l’Unione Europea come forza integratrice sovranazionale e non transnazionale.
“Fermare il vento con le mani” ossia l’inevitabilità di un cortocircuito
Il Manifesto di Ventotene, testo cardine del federalismo europeo, fu scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni durante gli anni di confino sull’isola omonima ad opera del fascismo. Il testo, oltre a delineare i contorni di una futura ed auspicata Federazione Europea, segnalava anche una nuova linea di demarcazione che si andava creando tra conservatorismo e progressismo, legata non più a politiche economiche socialiste o liberali, oppure a sfumature religiose o valoriali, ma alla scelta di sostenere la creazione di una sfera pubblica europea. I proponenti, che per formazione si ritenevano progressisti e davano una connotazione aprioristicamente positiva al termine, ponevano quindi la costruzione di uno Stato sovranazionale come fine ultimo delle forze del progresso e bollavano come reazionarie tutte le realtà che si sarebbero opposte a questa prossima trasformazione (Spinelli, Rossi, & Colorni, 2017).
Ad oggi il Manifesto di Ventotene è di ispirazione per molti sostenitori dell’ Unione Europea e della sua democrazia composita, anche se l’attuale concretizzazione del progetto spinelliano appare molto lontana da questo modello. Le principali differenze tra i due sistemi sono nella forma e nella sostanza. Nella forma, la Federazione che il federalismo europeo auspicava non era una semplice governance di secondo livello istituita tramite trattati internazionali, ma uno Stato sovranazionale con prerogative sovrane. Nella sostanza, la giustificazione della creazione di questo Stato non risiedeva solo in una generica aspirazione per la democrazia europea, ma passava anche attraverso il riconoscimento di un popolo europeo che doveva essere riscoperto e reso partecipe del nuovo progetto politico (Spinelli, 2004). In altre parole, il federalismo europeo, seppur di ispirazione per molti statisti e uomini di Stato che furono partecipi della storia dell’integrazione continentale, non riuscì mai ad affermarsi come modello vincente, ma fu adattato e mischiato con differenti modelli di integrazione sovranazionale meno radicali (Burgess, 2000).
In un momento storico di forte integrazione transnazionale, che già di sé pone nuove sfide alla sovranità tradizionale degli Stati, il sovranismo si pone come naturale reazione conservatrice a tutela del corpo sociale, il quale è incarnato da secoli nell’auto-rappresentazione nazionale. Questa reazione è facilitata dal fatto che la nazione ancora coincide sostanzialmente con l’unità di misura principale del dibattito politico e dello spazio elettorale e il declino della sua legittimità agli occhi dei cittadini non sembra essersi mai realizzato (Van Ham, Thomassen, Aarts, & Andeweg, 2017).
In Europa la battaglia per la democrazia transnazionale, ossia per una sfera pubblica di dibattito europeo, si mischia indifferentemente con il sostegno all’attuale assetto democratico di secondo livello da una parte e con le ragioni a favore di una democrazia globale dall’altra, anche se i tre concetti non coincidono. In particolare, il Federalismo Europeo che sognava uno Stato sovranazionale e una sfera pubblica transnazionale sembra un modello notevolmente lontano dall’attuale. Nelle pieghe di questa confusione su quali siano gli scopi ultimi del progetto europeo e quale sia la coerenza democratica dell’attuale sistema si inserisce il sovranismo euroscettico. Inevitabilmente, questo fenomeno politico è riconosciuto come populismo, sia con lo scopo di delegittimarlo associandolo al tòpos della demagogia classica, sia perché esso si appella ad una comunità esistente (quella nazionale) opponendosi a progetti politici che sono tutt’al più comunità-in-formazione. In un periodo di forte cambiamento sociale non sorprende quindi un ritorno ad un’idea aristocratica di democrazia liberale, la quale affonda profondamente le proprie radici nella storia dell’unità nazionale europea, ed è contrapposta al potere conservatore delle masse (Mazzini, 2010).
Nonostante la naturalità di questa reazione si dovrebbe ricordare che, se il sovranismo è un sintomo proveniente da una società democratica nei confronti di un cambiamento economico e sociale, il “populismo” euroscettico è peculiare perché manifestazione di un processo molto più complesso e che investe direttamente la sfera pubblica. Uno dei più famosi partiti “populisti” italiani, il Movimento Cinque Stelle, usò diffusamente nel corso della campagna elettorale per le elezioni italiane del 2018 il motto “Non si può fermare il vento con le mani - il cambiamento è inevitabile”. La frase, probabilmente mutuata da una delle “Lettere a Lucillo” del filosofo romano Lucio Anneo Seneca, stava ad indicare l’ineluttabilità della vittoria del partito, pur a fronte delle grandi difficoltà poste sul suo cammino.
Al di là della suggestione ovviamente funzionale dell’immagine, si può certamente notare come la stessa esistenza del Movimento Cinque Stelle fosse dovuta a fattori esterni al suo programma e relativi al contesto politico e sociale italiano. Lo stesso Movimento fondato dal comico Beppe Grillo del resto ha ammesso più di una volta di non aver avuto successo tanto per il suo programma quanto per il fallimento del dibattito politico che stava avendo luogo nel Paese, caso quasi unico tra i partiti “populisti” europei (Mantalone, 2012). Se ciò che viene identificato come “populismo” è un fenomeno politologico che si annida in alcune contraddizioni intrinseche all’attuale sistema politico/sociale, tanto da essere definito come rivoluzionario dalla scuola di Laclau, per meglio comprendere il fenomeno non si dovrebbe partire dal suo effetto visibile, ma dalle cause prime, accettando la legittimità del confronto pubblico tra diverse sfere democratiche che sta avendo luogo.